I neozelandesi hanno qualcosa. Qualcosa di strano, la cui incidenza sovrasta largamente ogni media statistica. Ognuno con un tocco, un segno variamente marcato che gli dona un'eccentricita' tutta particolare. E' una percezione che hai quando ci parli: appaiono come te, si esprimono come te, condividono con te buona parte del patrimonio genetico (molto piu' di quanto sarebbe opportuno aspettarsi a queste latitudini se non fosse per i passatempi coloniali dei nostri vecchi), ma.
Non e' tanto che manchi una rotella, quanto l'impressione che la' dentro ci sia qualche ingranaggio un po' sdentato, meccanismi differenti in movimento. Dev'essere qualcosa che ha a che fare con lo stare a cavalcioni sull'orlo del mondo, su uno degli ultimi avamposti del traballante Impero, affacciati su un Pacifico che non e' altro che un blu punteggiato di arcipelaghi distanti; manciata di uomini sull'ultima roccia, ai confini della mappa, che ancora ha senso chiamare stato. Ultimi coloni immersi in un ambiente dall'odore ancora primordiale, linea di trincea dove la Storia non ha mai concesso numeri sufficienti all'uomo per dominare.
Poi ti accorgi che a essere sbagliati sono i parametri.
E' una considerazione che emerge lenta. Verita' forse banale, ma mai constatata sulla pelle sinora: non e' solo il passato, la cultura, la societa'. E' anche, in primis, la terra su cui poggiano i piedi a dar forma a chi sei.
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