20 novembre 2011

Migrazione


Quattro giorni non bastano per conoscere una città, ma sono più che sufficienti per farsene un'idea. E l'idea, in questo caso, è che Sydney non fa per me. Tipo che se fosse una donna non mi piacerebbe, avremmo gusti diversi e probabilmente ci litigherei.
Mi era stato detto che prima o poi la domanda cruciale si sarebbe presentata, inevitabile ed allettante, ma non pensavo sarebbe successo così presto. Invece.

"Sud o nord?"

Questo Paese mette addosso ansie migratorie.
Quindi consultazione guida. Riflessione. Letture on-line. Confronto. Ri-consultazione guida. Domande in giro. Ri-riflessione.

Nord.

Una puntata a Byron Bay - combattuto tra i miei pregiudizi sulle spiagge da surfisti e l'aggettivo "imperdibile" che decine di racconti le hanno impresso sopra - poi a Brisbane, a fare base, terminare con le faccende burocratiche e magari cercar casa e lavoro. Poi si vedrà.

Lascio qui Ukkia, che ancora non ha smaltito il jet lag e credo stia lentamente prendendo la via del letargo. In ogni caso oggi ha trovato casa. Con una decina di koreani, tahilandesi e simili. Lui, inserito all'interno di un fragile ecosistema di valori orientali.
Tipo i pesci siluro nel fiume Po.
(in ogni caso va riconosciuto che, con tutti i difetti che noi due abbiamo, ci siamo distinti come veri signori nell'ostello di reietti in cui abbiamo vissuto finora)

Sta notte autobus, 12 ore di viaggio, la prossima fermata a 900 km da qui.

17 novembre 2011

Prove tecniche di trasmissione


Australia


24 ore di là dal mondo.
Dopo lo zaino stipato all'ultimo minuto, la notte da terremotato a Bologna, il tunnel di nebbia padana che ci ha condotto a Milano e il sosia di Ahmadinejad che ho fissato durante tutto il viaggio in navetta mentre, alle mie spalle, una pesante cadenza lombarda litigava con un tecnico TV.

Dopo l'attesa a Malpensa che alla fine si pensava peggio - con il socio che fissa come trafitto da luce divina i prezzi delle sigarette al duty free - e dopo un volo la cui traiettoria ho appuntato per filo e per segno per poi realizzare quanto fosse feticistico farlo. Dopo un film inglese sottotitolato in arabo di cui ho capito quasi nulla. E di quel poco mi piaceva quasi niente. Dopo Dubai, dove un doganiere ha attaccato discorso in arabo con Ukkia, prendendolo per mediorientale, e dopo che lui mi ha ricattato perché non lo raccontassi a nessuno.

Dopo le 14 ore e i 12.000 km quasi completamente dormiti del Dubai-Sydney, dove il tentativo d'approccio con "The tree of life" in lingua originale mi dà un principio di narcolessia. Dopo l'atterraggio, con Sydney che ci accoglie con la sua faccia da Londra tropicale rigata di pioggia e dopo Francesca, la ragazza italiana accompagnata all'ostello che, in pochi minuti, mi conferma quanto il proposito di evitare connazionali sia giusto e sensato.

Dopo l'arrivo in ostello, puzzolenti come mandriani, il brindisi all'arrivo e al futuro, i contrasti genetici stridenti con cui ci si trova faccia a faccia per la strada e la ragazza che chiede un braccio per aiutarla a scendere le scale, che assecondando la troppa sete si è trovata con le gambe tagliate e il pensiero malfermo. Dopo Ukkia e il suo primo impatto negativo con l'emisfero australe, lui che si alza per ultimo nella camerata, ha mal di testa, si fa di Tachifludec e sanguina dal naso come un dodicenne a primavera (non per forza in quest'ordine), che mi viene da pensare che se continua così forse bisognerà abbatterlo, che non si può farlo soffrire troppo.
Poi però si riprende.

Dopo la frutta che al supermercato si prende senza guanto, i matti scalzi, il pappagallo che strepita in pieno centro, gli inevitabili culi nudi nelle docce degli ostelli, la birra che costa troppo e il rosmarino che non c'è. Dopo i troppi "sorry?", la collezione di facce e voci nuove e la curiosità montante verso ciò che sarà.
Dopo la fugace comprensione dell'enormità che ho sotto mano e dell'imprevedibilità dell'avvenire.

Dopo tutto questo, e qualcos'altro, mentre scrivo, mi rendo conto - lentamente - di essere in capo al mondo.

8 novembre 2011

Inverno

Ho sempre amato l'inverno.
Anche quando è più corrosivo, col gelo che crepa le ossa e deterge i pensieri. L'ho sempre trovato temprante, purificatore, un confine che separa il vecchio dal nuovo, tonifica il corpo, strappa la vecchia pelle così che una nuova possa ricrescere addosso, indisturbata.
Sono rituali importanti, quando non si ha una religione in cui sperare.

Quest'anno però è diverso. Sarà lo spaesamento dovuto alla mancanza di traguardi segnati, sarà l'insoddisfazione, il sospetto latente di trovarsi sempre nel luogo sbagliato. Sarà la nebbia novembrina dentro cui certi pensieri si perdono senza saper più misurare la distanza da casa, come quel vecchio riminese di provincia dentro un film di Fellini. Sarà forse solo quest'inverno strano, che non vuol mollare il suo vestito d'autunno e lascia in bocca un sapore malinconico di decadenza senza fine, come un purgatorio senza uscita, prolungato per l'eternità.
Saranno cose di cui non si sa o non si vuol trovare il nome, che basta osservarne il profilo delle orme per capire che a seguirle non guiderebbero verso luoghi sicuri.

Sta di fatto che, a pensarci bene, questo sembra un buon momento per partire. Per scansare questo inverno strano, per lasciar che questa volta se ne resti qui. Solo. A passare.