28 luglio 2012

On the boat


Il sole è ancora sotto l'orizzonte quando varco i cancelli di Clippers. Il grosso 4x4 Toyota dorme nell'oscurità, solo qualche brace di sigaretta guizza nel buio, a tradir presenza umana.
Sono in sei, già tutti lì.
Capannello di facce sconosciute, sei diverse nazionalità, io vado a completare il quadro. Sono saluti assonnati quelli che ci si scambia, strette di mano di poco conto accompagnate da nomi che escono come entrano, scarso è l'interesse a tenerli impressi, tutti sono con la mente già proiettata altrove.

Poche parole muovono l'aria che lungo il tragitto divide i due sedili posteriori del fuoristrada, disposti l'uno di faccia all'altro lungo l'abitacolo. Nel frattempo la strada asfaltata diventa sterrato, poi pista nel bush, riducendosi infine a due semplici tracce di pneumatici tra sabbia e rocce.
La barca ci attende a una decina di metri dalla riva, danzando appena tra le correnti lievi. Per raggiungerla si cammina fin dove l'acqua sfiora la vita, ci si issa uno alla volta, gli sguardi ancora più curiosi. Col motore a piena potenza più che navigare sembra di saltare da un'onda all'altra. Poco lontano un delfino ci marca stretto per un po'.
Saranno passati venti minuti quando avvistiamo per la prima volta la nave. E' più piccola di come l'immaginavo, penso che non deve essere il massimo della vita per i 36 che ci vivono dentro. Sarà anche per questo che sto lavoro non paga poco. A prenderci in carico è Rafi, timorese dal capello arruffato e un aspetto più da busker che marinaio. Volto a cui è difficile dare un'età, decido arbitrariamente che avrà giusto qualche anno più di noi.

Il lavoro è semplice, più di muscoli che altro. Schema da catena di montaggio, l'industria delle perle vista da dentro ha un aspetto molto meno romantico di quanto si possa immaginare. Passare ore a scrostar conchiglie a colpi di mannaia o a divellere molluschi armato di coltello non è tanto diverso dalle occupazioni tipiche di qualunque altra fabbrica. E' l'oceano indiano intorno a far la differenza, assieme allo sfiatar di balene che di tanto in tanto smuove l'orizzonte. Perché è tempo di migrazione e i cetacei affollano queste acque, muovendosi placidi verso nord.
All'ora di pranzo arrivano gli squali. Girano lenti attorno all'imbarcazione, in attesa dei resti del pasto che il cuoco di bordo scarica in acqua. E' meglio che le bestie stiano a pancia piena, per felicità loro e dei sommozzatori che nei dintorni curano le colture sommerse.

Braccia e mani dolgono quando nel pomeriggio si ripresenta la stessa barca del mattino. E' ora di tornare. Sulla via verso la terraferma tutti sono più attivi, sarà l'ora, sarà l'eccitazione della novità, comunque si scambiano più commenti, l'atmosfera è più rilassata, volano un paio di battute, anche chi non le capisce ride.
A un certo punto incrociamo la traiettoria di una coppia di balene che nuotano particolarmente vicine alla riva. Motore al minimo ci avviciniamo, in silezio le osserviamo passare. L'ultima fa un cenno di saluto sollevando uno spruzzo con la coda.

Questa la cronaca del primo giorno, il momento in cui tutto è novità. Poi col tempo anche le cose più sorprendenti si fossilizzano, lo sguardo prende le misure, lo stupore cede il posto alla routine. O almeno credo. Perché il secondo giorno passa tranquillo. Al terzo non sento la sveglia. Ci doveva essere una clausola riguardante ciò da qualche parte del contratto.

Vado nel Queensland, và.

4 luglio 2012

Aggiornamenti latenti.


Da scriverci una pagina al giorno, questa è stata la mia vita ultimamente. E di pagine ne sono passate, ma nessuna tenace abbastanza da scorrer giù dai polsi, arrivare a penna o tasti, fissarsi su carta o processore chessia. Pagine arrendevoli, lassiste abbastanza da non reclamar nessun supporto, rassegnate a rimanere aria di giorni passati, cose fatte, nomi e facce dimenticati on the road.
Quando lasciai Perth avevo un’intenzione chiara, definita: diario di viaggio. La dannata pagina la giorno, che meritasse o no. Esercizio di stile, manciata di minuti di stretching mentale quotidiano per coniugare kilometri e inchiostro in modo diverso da quanto fatto sinora. Ho scritto il primo giorno. E l’ultimo. Assieme. Poi mi sono ripromesso di colmare il gap. Poi penso che non lo farò.

Il tragitto Perth-Broome è stato una storia di 14 giorni e 4000 km; di highways e piste sterrate; terra rossa e gumtree; notti all’addiaccio e roadhouse profilatesi all’orizzonte, cariche di sollievo e attesa come oasi nel deserto. Storia di mostri su ruote, canguri vivi o meno, acquazzoni, nomadi grigi e ore di guida su un paesaggio drammaticamente sempre uguale. In quattro in una Falcon, atmosfere da beat generation mancate, memoria fallace che – ci scommetto - avvolgerà tutto in un’aura mitica che avrà probabilmente poco o nulla a che fare con ciò che è stato in realtà.

Eventi che, mi sa, non ha più senso tentar di raggranellare in ritardo: storia dai pochi fatti e molti dettagli, spesso persi in un attimo, nascosti bene quantomeno, che si faranno magari vivi di nuovo un giorno, inanellando ricordi, in qualche altro posto lontano da qui.