Guen mi fa morire.
Guen che ogni giorno è già storia di ieri. Guen che mi è piaciuta al primo istante, che poi mi è parsa eccessiva, boriosa, che è finita nel mio letto senza che me lo aspettassi e poi ne è uscita con un addio.
Un addio tardivo, testimone una bottiglia di buon shiraz.
Guen che poi è ricapitata qui per un ciao, ma non l'ho persa per tutta una notte; che era a sud e poi di nuovo qui. Guen che è un mese, forse, ma pare una vita in quest'esistenza senza patria, dove tutto è concentrato sull'istante: cogli l'attimo, che tutto vola via. Guen, con cui ogni volta il bacio è uno sfiorare la guancia, au revoir, tacito accordo, che importa di domani, vedremo poi. Una storia parlata in una lingua approssimativa, castello in aria eretto su nuvole smilze di parole che nessuno dei due, potendo scegliere, userebbe mai. Relazione inevitabilmente precaria costruita su fondamenta di stranieri sguardi d'intesa. Guen, che amore non sarai mai, solo il mutuo accordo dello star qui, ora, che presto, o ancor prima, tutto sarà andato ormai. Saran ricordi, forse ancor meno; un concentrato di esistenza tra due passati incrociatisi per caso lì. Momento andato così, senza ieri a cui guardare e un futuro che, ci si scommette, non ci sarà mai. Che si viva adesso è l'accordo, domani chissà che faremo. E dove, poi. Chissà se in un diverso istante quell'alchimia si sarebbe creata mai.
Ma che importa, in fondo. Domani è già un giorno troppo in là.
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