24 ore di là dal mondo.
Dopo lo zaino stipato all'ultimo minuto, la notte da terremotato a Bologna, il tunnel di nebbia padana che ci ha condotto a Milano e il sosia di Ahmadinejad che ho fissato durante tutto il viaggio in navetta mentre, alle mie spalle, una pesante cadenza lombarda litigava con un tecnico TV.
Dopo l'attesa a Malpensa che alla fine si pensava peggio - con il socio che fissa come trafitto da luce divina i prezzi delle sigarette al duty free - e dopo un volo la cui traiettoria ho appuntato per filo e per segno per poi realizzare quanto fosse feticistico farlo. Dopo un film inglese sottotitolato in arabo di cui ho capito quasi nulla. E di quel poco mi piaceva quasi niente. Dopo Dubai,
Dopo le 14 ore e i 12.000 km quasi completamente dormiti del Dubai-Sydney, dove il tentativo d'approccio con "The tree of life" in lingua originale mi dà un principio di narcolessia. Dopo l'atterraggio, con Sydney che ci accoglie con la sua faccia da Londra tropicale rigata di pioggia e dopo Francesca, la ragazza italiana accompagnata all'ostello che, in pochi minuti, mi conferma quanto il proposito di evitare connazionali sia giusto e sensato.
Dopo l'arrivo in ostello, puzzolenti come mandriani, il brindisi all'arrivo e al futuro, i contrasti genetici stridenti con cui ci si trova faccia a faccia per la strada e la ragazza che chiede un braccio per aiutarla a scendere le scale, che assecondando la troppa sete si è trovata con le gambe tagliate e il pensiero malfermo. Dopo Ukkia e il suo primo impatto negativo con l'emisfero australe, lui che si alza per ultimo nella camerata, ha mal di testa, si fa di Tachifludec e sanguina dal naso come un dodicenne a primavera (non per forza in quest'ordine), che mi viene da pensare che se continua così forse bisognerà abbatterlo, che non si può farlo soffrire troppo.
Poi però si riprende.
Dopo la frutta che al supermercato si prende senza guanto, i matti scalzi, il pappagallo che strepita in pieno centro, gli inevitabili culi nudi nelle docce degli ostelli, la birra che costa troppo e il rosmarino che non c'è. Dopo i troppi "sorry?", la collezione di facce e voci nuove e la curiosità montante verso ciò che sarà.
Dopo la fugace comprensione dell'enormità che ho sotto mano e dell'imprevedibilità dell'avvenire.
Dopo tutto questo, e qualcos'altro, mentre scrivo, mi rendo conto - lentamente - di essere in capo al mondo.
Vedere "The tree of life" in italiano o in inglese non fa poi molta differenza per gran parte del film!
RispondiEliminaIn un cinema a Bologna hanno addirittura proiettato per un paio di settimane prima il secondo tempo e nessuno se ne è mai accorto!!!
RispondiEliminagrande belià!!!mari e mino
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