24 maggio 2013

Hunting in Istanbul


Istanbul. Such a great city's that!
A kind of peaceful state of mind falls on me while I wander along its streets. I don't completely get the reason for that. Perhaps it's because of the huge number of cats. There's cats everywhere: cats staring from the roofs, cats snaking through the railings, cats chillin' out in the sunshine, on top of the walls. Stray cats shadowing and sorrounding you, sometimes, if they believe you've got some good food. But it's ok: they're just cats. If they were gorillas I'd had been a bit more worried, that's sure. Skinny cats, mostly. I guess there must be lots of competition for every single tiny bone. And sadly they're not evolved enough to appreciate nuts. I checked.

But perhaps cats are not the reason of my mood, though I do love them. It could be because of the mosques, then. As "the City of minarets" Istanbul is also known. Looking from the hills the skyline looks like strafed with needles. Giants' needles, I mean.
Mosques are my favourite worshipping place. And it's not an easy choice for a unbeliever man. There are lots of elements to consider and no god inside to attract your preference. But I love the quiet atmosphere you breathe inside, the carpets which silence the steps, the curves of characters I cannot understand, on the wall, bent like the back of a preying man. Not terribly iconic and full of grief as churches and more tidy and holy than pagodas, mosques really look like a place where it could occur to run into a god, just by chance.

But I'm not even sure that's the true reason why I feel in that way when I'm in Istanbul. Maybe it's related to the tourists. Of course here they're stupid like everywhere else and equally predictable as well. They live in symbiosis with sacred guidebooks and dine always, all together, at the same time. It's easy to avoid them, if you really want to: they suffer an incredible lack of imagination. Tourist are a naive, simple kind of humanity... They won't ever know the beauty of getting lost. In Istanbul they're also more predictable than everywhere else: you'll find them all stuffed, being ripped off into the Grand Bazaar; sweating besides the Galata Tower; queuing neatly in Sultanahmet, like a well-ordered flock of sheep. To get rid of them it's enough to avoid the most beaten routes they run up and down all day long, like trams made of cameras and flesh; to stray away in less famous neighbourhoods and they won't fallow your track. Yeah, my opinion of tourists never raises, even though I'm supposed to be one of them. But I always prefer to think I'm not. I developed some decent reasons to justify that.

But I haven't yet found the explanation for that feeling that fills my mind in the capital of Turkey and not elsewhere. Perhaps it's because of the overwhelming scent of spices that unexpectedly saturates the air in some alleyways; or for the call of muezzins that spreads from tower to tower at the sunset. Maybe it's the charm of a city which is split between two continents but doesn't apparently belong to anyone of them.
Perhaps it's a blend of all of these things.
But it doesn't matter that much, as you can infer from the title I didn't start writing this post to ponder on this, though the keyboard took that way and the fingers have followed. I started writing this just to say that the hunting wasn't good. No violet dragons here.
Fuck.

10 maggio 2013

About a girl


I know she comes here sometimes.
I lift a glass to her health, in exchange.
Even though I never finished translating the last text she left to me, sometimes I still wait for few more words comin', telling that she's eventually changed her mind, she's got a ticket, she's passing by. Other times I believe it's better just to remember those two eyes on top of a coffee cup. That's indestructible, nothing will ever come to mess up here. Memories are so tidy and strong.
Then I change my mind.
She's so ridiculously close, not even a ocean from here. That's unfair. And I'm becoming cheesy, that's silly, I know. Basta. But it's night, I'm less bound and I can't help recalling the alleys of Hoi An (and I'm also a bit upset, 'cause I can't find anymore the url of her second blog).
Heaps of stuff is changed since then: I don't play soccer with kids now (ok ok, I've never done that), I don't bargain for fruit anymore. But take it easy, the foolish smile is always the same. Just a bit less hair on my face.
And apparently I still write for her.
I don't think to her all the time, but I'd love to see her appearing, around the corner, on that very same pedicab again. Or on another one. Or on a bus, a car, a bicycle, a train. It doesn't matter that much. I don't know where I'd go, but I'm pretty sure I'd drive her farther, this time.

16 febbraio 2013

Un modo un po' elaborato per dire cazzari (lettera aperta a "InformareXresistere")

bufala

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Postilla 21/2/2013:
la redazione di Informarexresistere, mostratasi competente e professionale, ha pubblicato la lettera QUI.
(chiaramente i commenti dimostrano la totale inutilità dello sforzo)

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Premessa:

è successo che recentemente mi sono trovato più volte sottomano un link dal titolo La causa primaria del Cancro fu scoperta nel 1931 da uno scienziato premio nobel. A causa di qualche oscuro presagio, forse un'avvisaglia di sesto senso, ho accuratamente evitato di aprire il link. Ma infine, all'ennesima apparizione, ho ceduto. Quello che mi sono trovato davanti è stato un autotreno di cazzate sparato a cento all'ora in autostrada, in contromano, senza autista e a fari spenti. L'involuzione della specie in comodo formato blog. Rimando alla lettura del suddetto articolo.

Sta di fatto che di fronte a tale evidente atrocità star con le mani in mano non si poteva. Troppo scazzo. Così, dopo un breve e intenso dibattito su Facebook, si è deciso di risalire alla fonte. Nasce così questa lettera indirizzata alla redazione di InformareXresistere e ai suoi ingenui e paranoici seguaci. Non so se loro la pubblicheranno, nel dubbio la metto anche qui.
Un ringraziamento a Flavia Cappelloni che c'ha messo la competenza scientifica. Dal canto mio mi sono limitato a trovare un modo un po' elaborato per dire "cazzari".
Fine premessa.


La lettera:

Gentile redazione,

vi scriviamo a seguito della recente lettura dell'articolo da voi pubblicato dal titolo La causa primaria del Cancro fu scoperta nel 1931 da uno scienziato premio nobel datato 15 novembre 2012, in principio uscito sul sito ECplanet.com a firma Edoardo Capuano.
E' facile constatare come il contenuto del suddetto articolo sia basato su tesi anacronistiche, superficiali e lacunose, facendone un esemplare caso di disinformazione. Essendo la vostra una realtà informativa dotata di un certo seguito – e quindi di un certo peso – riteniamo opportuno fare una critica all'articolo sopracitato, così che anche i vostri lettori possano avere un raffronto e realizzare come quelle che sono state scritte e diffuse siano nozioni errate, svianti e, in sostanza, false.

Partendo dal presupposto innegabile che una nutrizione varia ed equilibrata unita a uno stile di vita salutare è estremamente importante per una vita sana, vorremmo però far notare che da una lettura dell'articolo in questione si evincono anche le seguenti tesi:

15 febbraio 2013

Tasmania en passant


Di andate e ritorno di isola in isola, programmi affossati, insofferenza diffusa e l'indimenticata Clemence.
Nuova puntata del mio diario di viaggio australiano, su Downunder Report.

4 febbraio 2013

Storie di topi pigri

mouse soldier

Ovvero: Avaaz e il pigrattivismo on-line.
Salveremo il mondo a colpi di click? Spoiler: ne dubito.
Una nuova faziosità sul Guazzetto Fazioso, per la precisione QUI.

1 febbraio 2013

Memorie khmer


La Giornata della Memoria serve effettivamente a qualcosa?
Ne dubito. Ma per commemorarla ho visitato i campi di sterminio di Pol Pot.
In realtà li ho visitati il giorno seguente, il S. Stefano della Memoria per intenderci. Un po' perché la puntualità non è il mio forte e un po' perché la fedeltà a questo genere di date è fondamentale solo nel caso si organizzino pompose cerimonie ufficiali o si abbiano pretese di sovraesposto interesse.

Ma non è che ho visitato i campi cambogiani per sostenere l'immortale e superflua polemica del "quello degli ebrei non è stato l'unico sterminio". Anzi, io lo capisco benissimo che non si può chiedere alla gente di ricordarsi troppa roba in un giorno solo. Che per trovare citazioni adeguate da pubblicare su Facebook si fa già abbastanza fatica così. Inoltre, dato che la memoria in questione si protrae per ventiquattr'ore (o meno) l'anno, che ci si ricordi di tutti i massacri della storia o di uno solo non fa comunque differenza gran che.

In sostanza, io a Phnom Penh ho visitato i campi della morte di Pol Pot perché era lì che stavo, e i cambogiani hanno i propri sterminii a cui pensare, mi dicevo, senza bisogno di metterci di mezzo anche gli ebrei.
Devo riconoscere che hanno fatto un buon lavoro, i cambogiani. Sul piano storiografico, intendo. Il biglietto d'ingresso include audioguida, così non devi nemmeno porti il problema se immolare qualche dollaro alla causa della comprensione o decidere di risparmiarti i soldi e non capire un cazzo come poi va sempre a finire. Se attraversi i cancelli di Choeung Ek i cambogiani te la sbattono in faccia, la storia.

E, insomma, segue tutta la questione di come Pol Pot se ne va a studiare a Parigi e torna col cervello fulminato, che forse però era già fulminato da prima. La nazione è debole, provata da una situazione economica poco rosea e soggetta ai bombardamenti americani che nell'est tentano di tagliare le vie di rifornimento nord-vietnamite, create per sostenere i ribelli di Saigon.
E' in questo quadro che Pol Pot arriva, si mette a capo dei Khmer Rossi e prende il potere. Senza nemmeno doversi sbattere troppo. E' il 1975.
Pot fissa quindi un nuovo Anno Zero e con tutto lo zelo dell'idealista parte col progetto di trasformare l'intera nazione in una sorta di cooperativa agraria totale. A tal fine le città vengono evacuate e gli abitanti trasferiti nei campi, a lavorare 12 o più ore al giorno per due scodelle di riso e qualche insufficiente nozione di agricoltura.
La Cambogia è trasformata in un enorme campo di lavoro forzato a cielo aperto, dove chi cede vien massacrato dalle guardie che a loro volta, se non fanno rispettare i livelli di produzione, vengono massacrate da qualcun'altro. La paura fa da perno. In genere si viene accoppati utilizzando semplici attrezzi da lavoro. Chi non muore sul colpo resta a terra, a dissanguare in attesa delle fosse comuni e del DDT. I proiettili son merce preziosa, non vanno sprecati. In ogni caso, date le condizioni, a molti non serve alcun intervento esterno per crepare. Sfinimento e fame fanno il lavoro da sé.

Al contempo Pol Pot ha anche questa curiosa idea, di quelle che di tanto in tanto nella storia saltano fuori, cioè che gli intellettuali è meglio non averli tra i piedi. Segue che, in base ad una logica che evidentemente non è all'insegna del moderatismo, l'uomo pensa bene di far trucidare gli insegnanti, gli studiosi, tutti coloro che parlano più d'una lingua e, tanto per star sicuro, anche chiunque porti gli occhiali. Sai mai.
In generale ogni individuo sospettato di poter anche solo lontanamente crear problemi viene fatto fuori, spesso seguito dall'intera famiglia, cosicché nessuno resti a invocar vendetta.
E' evidente come la profonda paranoia che Pol Pot nutre verso praticamente ogni cosa non semplifichi la situazione. Infatti anche alcuni membri della sua famiglia ci lasciano la pelle: le liti domestiche non dovevano essere delle più leggere.
Nel frattempo anche luoghi di culto, musei e biblioteche vengono sistematicamente distrutti o chiusi. Altro punto, realizzato, del programma consiste nell'abolizione di banche, finanza e denaro.

La Cambogia sparisce dai radar.

Il tutto va avanti per tre anni e otto mesi, finché il vicino Vietnam non decide che magari è il caso di intervenire. Quindi, a forza di carroarmati e strategia, caccia via i Khmer Rouge, che si rifugiano in Thailandia. E' il 1979. Su una popolazione che era di 8 milioni ne sono rimasti 5. Un terzo abbondante in meno.

Ai paesi occidentali però questa cosa dell'intervento vietnamita non piace, anche perchè siamo in piena Guerra Fredda e se un paese socialista come il Vietnam fa qualcosa, quel qualcosa è per definizione sbagliato. Anche la Cina non vede la cosa di buon occhio, essendo il maggior acquirente del riso che i cittadini/schiavi cambogiani si spezzavano la schiena a coltivare. Ne segue che sul piano internazionale in parecchi continuano a considerare il governo di Pol Pot in esilio la legittima guida del paese, tanto che durante il processo di pace i Khmer Rossi conservano il loro posto all'ONU, situazione che non rende le cose né più facili né più veloci.
L'ultimo avamposto Khmer Rouge viene preso nel 1998. I processi del Tribunale Speciale della Cambogia si trascinano lenti, col tempo che intanto falcia per conto proprio gli ormai anziani imputati.
Intanto Pol Pot, mezzo paralizzato, è morto da qualche parte, fuor di galera, facendosi i fatti suoi.

Tutto questo e qualcos'altro ti spiegano nell'arco di un'ora, ai campi di sterminio di Choeung Ek.
E come ultima cosa, un po' inaspettatamente, ti chiedono di ricordare. Ricordare la Shoa, il Rwanda, i desaparecidos, I gulag, l'ex-Jugoslavia e tutto il resto. Perché, affermano, dittature e massacri del genere ci sono stati, ci sono e ci saranno ancora, e solo conservandone la memoria si può far qualcosa per prevenirne la realizzazione.
Ti dicono tutto questo i cambogiani, con l'accento vagamente marchigiano dell'audioguida. Gente che giusto l'altro ieri ha visto quasi spazzata via la propria società, tradizione e cultura, che ha assistito al massacro del proprio popolo e si è trovata schiava nel proprio Paese. Gente che, volendo, avrebbe anche un certo diritto a concentrarsi sulle proprie ferite ti dice “ok, questa è stata una situazione fottuta, ma ce ne sono altri a cui è andata uguale, e altri seguiranno. Tienilo presente. Non è questione di ricordo ma di salvaguardia. Non lapidi ma carne viva che, in una certa misura, dipende anche da te. La memoria guarda sempre al domani.”

31 gennaio 2013

Portaburro reloaded

Wilson

L’impressione è quella di perdere i lacci.

Guardi il tuo paese da lontano e non riesci più a capire tanto bene come funziona. O quantomeno non ci riesci bene come prima. Sarà che è un universo complesso, fatto al contempo di Monti e di Corona; di peccatori vaticani e santoni da bar; di barconi e di crociere; ritrattazioni e accuse; di sì e di no sugli stessi argomenti, a volte con alle spalle le medesime argomentazioni. Un microcosmo che richiede dedizione, che non si fa interpretare dal primo che passa, che bisogna saper leggere tra le righe delle note a bordo pagina, nelle scritte sui muri dei cessi pubblici, a volte sugli striscioni in curva degli ultrà. Non basta mica sfogliare ogni tanto qualche blog e dare saltuariamente una sbirciata a Repubblica.it.
La testa dell’Italia concede sì la comprensione, ma pretende l’anima in cambio.
O forse mi sbaglio? Non ricordo più bene.

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26 gennaio 2013

Urti, deviazioni

I look for the unguarded moment, the essential soul peeking out.
Steve McCurry

S. McCurry - Afghan girl

Ci si sbatte addosso l'un l'altro, in continuazione, ma spesso non lo si nota nemmeno.
Funziona come con le fotografie: ogni istante in ogni luogo è immagine potenziale, ma per afferrare in uno scatto il manifestarsi della vita ci vuole allenamento, fortuna e istinto.
È che ci sono momenti che valgono di più di altri, almeno nella forma, o nel contenuto, o nel senso generato da un qualche strano incrocio tra i due. Non si tratta solo di imprimere su pellicola una somma di luci ma di afferrare in un istante quella che è la chiave di un processo in divenire, passato e futuro annessi. Una buona foto è sempre più grande della sua cornice.

E fin qui si parlava di fotografia. Ma come pellicole funzionano le persone e le tensioni che tra esse si creano: incontri casuali, se realizzati nel modo, momento e luogo opportuni sono in grado di imprimersi a fondo e di aprire nuove porte; svelare altri percorsi; cambiare più o meno in grande il corso di vite intere.
O di risemantizzarne intere frazioni.
E' più scienza che destino.
Ogni volto incrociato è un nuovo esistere in potenza, il seme di una deviazione, l'ombra d'una nicchia in cui riposare. La differenza, carpe diem, la fa l'abilità nel saper cogliere l'indizio, nel seguirne la traccia. E poi veder cosa succede. E' anche un po' una scommessa, un pescare alla cieca senza sapere bene l'eredità che ogni volto porta con sé.

Ci si sbatte addosso in continuazione, si inciampa nella vita di altra gente e spesso non lo si nota nemmeno. L'esistenza in viaggio per questo è scuola: altrove da casa son meno rigide le sbarre tra cui ci si muove, l'occhio più vigile, tese le antenne e acuito l'olfatto con cui si scandaglia il resto dell'umanità. Ma è uno stato di grazia difficile da conservare, quel sesto senso migratore: una volta tornati il conosciuto riprende il sopravvento, si fa guscio che annebbia lo sguardo, vecchie gabbie interpretative ripiombano rigide in testa. Sulle vie note i passi si susseguono troppo sicuri per far veramente attenzione a dove il piede va a poggiare.
E così intere fette di futuro se ne passano davanti agli occhi incuranti, messaggi in bottiglia alla deriva ignorati e perduti magari per sempre. Un'opzione che scompare. Una via laterale che svanisce alle spalle, non si saprà mai per portare dove.

E' uno stato di coscienza difficile da conservare, ma forse l'unica cosa che davvero resta presente, utile e viva, mentre fotografie ingialliscono su mensole impolverate o si smagnetizzano lente, dentro cartelle di vecchi hard disk.
I viaggi, più che processione di luoghi sperduti, sono vite sconosciute attraverso le quali passare.
Non andrebbe scordato mai.

17 gennaio 2013

Mnemosyne

Un post ibrido, metà edito e metà no. La nuova pagina di Downunder Report, il diario col senno di poi, su A nordest di che:


Melbourne, la città dalle quattro stagioni in un giorno.
O in una settimana, quantomeno.
A volte è un attimo, e il sole che spacca il cranio viene ingoiato da nuvole pesanti, e l’acqua vien giù a scrosci, a secchi, a cascate. Piove come se tutti gli angeli incontinenti del paradiso si fossero messi a pisciare in una volta sola, un diluvio che pare non debba ceder spazio ad alcun domani. Ogni giorno è diverso, non si sa mai cosa aspettarsi. Melbourne, l’imprevedibile, la amo anche per questo.

Oggi è il vento che domina le strade.
Che poi non è una novità. Ma questo è un vento più feroce del solito, rovente, un vento che asciuga gli occhi e alleva incendi. Aria di fucina, più che di città...


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10 gennaio 2013

Letterina di Natale

Riceviamo e pubblichiamo leggermente in ritardo. Tipo di un anno.

Lettera aperta a un musicista della Salvation Army

Mio giovane e poco talentuoso amico,
oggi voglio essere franco con te: ogni volta che mi capita di incrociarti, mentre ti esibisci coi tuoi altrettanto giovani e inesperti compagni in coppie d’archi o terzetti di ottoni di fronte a Woolworths o fuori dalla State Library, un brivido mi percorre la schiena. Ma non fraintendermi, ciò non è dovuto all’evidente lacunosità con cui ti sei dedicato allo studio dello strumento, alla mancanza di senso del tempo, ritmo e coordinazione che spudoratamente esibisci o anche solo alla tua evidente incapacità di mettere più di quattro note intonate in fila.
No, la scarica che mi rattrappisce la spina dorsale ogni volta che ti vedo apparire, che mi mette tutto in subbuglio come un Allegro Chirurgo in scala 1:1 a cui hanno rimosso l’osso sbagliato, è dovuta a ben altro.

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